Non è facile interpretare le mosse di Aurelio De Laurentiis, come l’acquisizione del titolo sportivo del Bari calcio, un imprenditore che nei colloqui privati si è sempre definito un “giocatore di poker conservativo”.
Sia chiaro: Napoli e il calcio Napoli gli devono molto. Ma è altrettanto vero che il presidente De Laurentiis, destinatario di nuove contestazioni da parte della tifoseria organizzata (che c’è da augurarsi restino civili e legali, a differenza del passato in cui si sono tradotte in forme estorsive ai danni del patron azzurro) a sua volta deve molto a Napoli e al calcio Napoli. Una centralità politica e sportiva che difficilmente avrebbe avuto con il proseguo della sua attività cinematografica (lo sviluppo dello Sport System globale va in questa direzione e dunque non la si prenda come una diminutio).
L’ingaggio di un allenatore top come Carlo Ancelotti, all’inizio dell’estate, è una classica mossa da giocatore di poker difensivo e allo stesso tempo un colpo da maestro. Tre o quattro allenatori al mondo avrebbero potuto sedare una piazza così innamorata del tecnico “dismesso”, che nel tempo ha assunto le vesti del Comandante popolare. E ADL ha persuaso Ancelotti a sedere sulla panchina del club partenopeo, stressando ulteriormente un bilancio in cui i costi stanno crescendo troppo rispetto ai ricavi da diverse stagioni.
Ad oggi l’investimento di De Laurentiis nel Napoli è però decisamente in attivo. Per i risultati conseguiti da una società rilevata dalla bancarotta. E dal punto di vista del portafoglio del presidente e della sua famiglia. Si può dire in estrema sintesi (i dettagli li ho raccontati in altri post e ne “La Fine Del Calcio italiano”) che ad oggi non solo il Napoli non è costato un euro a De Laurentiis ma che il saldo fra le immissioni di capitale e i prestiti al club e i ritorni sotto forma di dividendi del consiglio di amministrazione “familiare” è per lui positivo. In più tuttavia il presidente si ritrova un patrimonio di almeno 300/350 milioni. Tanto dovrebbe sborsare un acquirente se volesse oggi prendere il Napoli: un club che non ha strutture immobiliari, ma che può vantare un brand importante, che ha in cassa riserve per oltre 80 milioni e una rosa ragguardevole.
Il patron azzurro si è appena “sdoppiato” come proprietario rilevando il Bari (o per attenersi alla dizione dei tifosi pugliesi “la Bari”) fallito per la seconda volta in quattro anni. Un affare, visto che si tratta di una delle piazze calcistiche più importanti della Penisola (unica squadra di una città con oltre un milione di abitanti, tanto per cominciare).
La calata di presidenti di Serie A a Bari (ci hanno provato anche l’immancabile Lotito, già proprietario di Lazio e Salernitana, e Preziosi) dimostra lo stato degenerativo e autoreferenziale fino al parossismo in cui versa il calcio tricolore. Con le due principali piazze del Mezzogiorno in mano alla stessa persona. E l’incapacità di un sistema imprenditoriale sportivo di esprimere alternative credibili. Certo, si potrà vaneggiare la nascita di una Regno calcistico del Sud in lotta contro i potentati del Nord. Con questi concetti vanno a nozze i media e le organizzazioni neoborboniche e i fautori del sovranismo in tutte le salse.
Le ragioni dell’investimento di De Laurentiis nel Bari vanno oltre questi scenari. L’idea base è quella di precostituirsi una alternativa al Napoli, che magari potrà cedere senza uscire di scena completamente da un mondo a cui sente ormai di appartenere e che ha saputo sfruttare molto meglio di altri.
Per riportare il Bari in A occorreranno, a seconda della velocità della risalita dalla Serie D, 20/25 milioni. Anche in Serie B i Galletti saranno fonte di perdite. Con l’approdo in Serie A invece potranno contare su una base di 40 milioni di diritti tv. La stessa scommessa l’avevano fatta Paparesta e Giancaspro. De Laurentiis ha le spalle più larghe. E soprattutto non dovrà comprare il titolo con il Lodo Petrucci come fece con il Napoli con un esborso iniziale vicino ai 30 milioni. Il Bari perciò potrà essere redditizio tra tre anni a De Laurentiis ma in quel momento dovrà essere ceduta una delle due società visto che due club appartenenti allo stesso proprietario non possono giocare lo stesso campionato.
Il mancato acquisto di Cavani o di altri bomber perciò non è legato all’operazione Bari, bensì a una situazione di conti che andrebbero fuori controllo. De Laurentiis lo ha detto e in questo caso c’è da credergli. Prendere un giocatore con un ingaggio da 7,5 milioni in su (che lordi sono il doppio) e ammortizzarne il cartellino (per altri 10/12 milioni a stagione) per una società che compresa la Champions fattura intorno ai 200 milioni e ha già un analogo costo della rosa (tra compensi e ammortamenti) sarebbe un suicidio.
A meno di non cedere giocatori con ingaggi e ammortamenti che pesino per almeno 25 milioni.
L’estate da pokerista “conservativo” di Aurelio De Laurentiis tra Ancellotti, Cavani e il nuovo Bari
Non è facile interpretare le mosse di Aurelio De Laurentiis, come l’acquisizione del titolo sportivo del Bari calcio, un imprenditore che nei colloqui privati si è sempre definito un “giocatore di poker conservativo”.
Sia chiaro: Napoli e il calcio Napoli gli devono molto. Ma è altrettanto vero che il presidente De Laurentiis, destinatario di nuove contestazioni da parte della tifoseria organizzata (che c’è da augurarsi restino civili e legali, a differenza del passato in cui si sono tradotte in forme estorsive ai danni del patron azzurro) a sua volta deve molto a Napoli e al calcio Napoli. Una centralità politica e sportiva che difficilmente avrebbe avuto con il proseguo della sua attività cinematografica (lo sviluppo dello Sport System globale va in questa direzione e dunque non la si prenda come una diminutio).
L’ingaggio di un allenatore top come Carlo Ancelotti, all’inizio dell’estate, è una classica mossa da giocatore di poker difensivo e allo stesso tempo un colpo da maestro. Tre o quattro allenatori al mondo avrebbero potuto sedare una piazza così innamorata del tecnico “dismesso”, che nel tempo ha assunto le vesti del Comandante popolare. E ADL ha persuaso Ancelotti a sedere sulla panchina del club partenopeo, stressando ulteriormente un bilancio in cui i costi stanno crescendo troppo rispetto ai ricavi da diverse stagioni.
Ad oggi l’investimento di De Laurentiis nel Napoli è però decisamente in attivo. Per i risultati conseguiti da una società rilevata dalla bancarotta. E dal punto di vista del portafoglio del presidente e della sua famiglia. Si può dire in estrema sintesi (i dettagli li ho raccontati in altri post e ne “La Fine Del Calcio italiano”) che ad oggi non solo il Napoli non è costato un euro a De Laurentiis ma che il saldo fra le immissioni di capitale e i prestiti al club e i ritorni sotto forma di dividendi del consiglio di amministrazione “familiare” è per lui positivo. In più tuttavia il presidente si ritrova un patrimonio di almeno 300/350 milioni. Tanto dovrebbe sborsare un acquirente se volesse oggi prendere il Napoli: un club che non ha strutture immobiliari, ma che può vantare un brand importante, che ha in cassa riserve per oltre 80 milioni e una rosa ragguardevole.
Il patron azzurro si è appena “sdoppiato” come proprietario rilevando il Bari (o per attenersi alla dizione dei tifosi pugliesi “la Bari”) fallito per la seconda volta in quattro anni. Un affare, visto che si tratta di una delle piazze calcistiche più importanti della Penisola (unica squadra di una città con oltre un milione di abitanti, tanto per cominciare).
La calata di presidenti di Serie A a Bari (ci hanno provato anche l’immancabile Lotito, già proprietario di Lazio e Salernitana, e Preziosi) dimostra lo stato degenerativo e autoreferenziale fino al parossismo in cui versa il calcio tricolore. Con le due principali piazze del Mezzogiorno in mano alla stessa persona. E l’incapacità di un sistema imprenditoriale sportivo di esprimere alternative credibili. Certo, si potrà vaneggiare la nascita di una Regno calcistico del Sud in lotta contro i potentati del Nord. Con questi concetti vanno a nozze i media e le organizzazioni neoborboniche e i fautori del sovranismo in tutte le salse.
Le ragioni dell’investimento di De Laurentiis nel Bari vanno oltre questi scenari. L’idea base è quella di precostituirsi una alternativa al Napoli, che magari potrà cedere senza uscire di scena completamente da un mondo a cui sente ormai di appartenere e che ha saputo sfruttare molto meglio di altri.
Per riportare il Bari in A occorreranno, a seconda della velocità della risalita dalla Serie D, 20/25 milioni. Anche in Serie B i Galletti saranno fonte di perdite. Con l’approdo in Serie A invece potranno contare su una base di 40 milioni di diritti tv. La stessa scommessa l’avevano fatta Paparesta e Giancaspro. De Laurentiis ha le spalle più larghe. E soprattutto non dovrà comprare il titolo con il Lodo Petrucci come fece con il Napoli con un esborso iniziale vicino ai 30 milioni. Il Bari perciò potrà essere redditizio tra tre anni a De Laurentiis ma in quel momento dovrà essere ceduta una delle due società visto che due club appartenenti allo stesso proprietario non possono giocare lo stesso campionato.
Il mancato acquisto di Cavani o di altri bomber perciò non è legato all’operazione Bari, bensì a una situazione di conti che andrebbero fuori controllo. De Laurentiis lo ha detto e in questo caso c’è da credergli. Prendere un giocatore con un ingaggio da 7,5 milioni in su (che lordi sono il doppio) e ammortizzarne il cartellino (per altri 10/12 milioni a stagione) per una società che compresa la Champions fattura intorno ai 200 milioni e ha già un analogo costo della rosa (tra compensi e ammortamenti) sarebbe un suicidio.
A meno di non cedere giocatori con ingaggi e ammortamenti che pesino per almeno 25 milioni.