La pandemia ha stravolto i già molto precari equilibri del calcio italiano. Chiaramente la prima grande recessione che ha colpito l’industria del calcio ha colpito tutti i club. Ma non ha colpito tutti i club (e le proprietà di questi ultimi) alla stessa maniera. Per fare un esempio comprensibile si pensi a due ristoranti aperti sulla stessa via della stessa città. Immaginiamo che uno, da anni, avesse le sue strutture, il suo staff e il suo chef, ormai consolidati. E che l’altro, invece, poco prima delle chiusure avesse da poco rinnovato il locale, comprato nuove cucine, assunto uno chef stellato, etc. Entrambi i ristoranti durante i lockdown hanno subito una fortissima contrazione dei ricavi. Ma il secondo oltre alla riduzione delle entrate ha anche dovuto sopportare il peso dei maggiori oneri, degli interessi e dei più alti stipendi corrisposti al personale. È questo che è accaduto ai club italiani (e non solo). Al netto di errori di gestione e scelte azzardate, chi è stato sorpreso dalla pandemia in una fase espansiva degli investimenti ha pagato conseguenze peggiori. E ha dovuto trovare soluzioni eccezionali per farvi fronte. Nell’autunno del 2019 la situazione dei club di vertice in Serie A vedeva in prima fila la Juventus e in forte ripresa l’Inter. La Roma era in mezzo al guado senza essere riuscita a fare il salto di qualità auspicato dalla proprietà americana. Il Milan era impegnato ad evitare il declino successivo al passaggio dalla proprietà cinese a quella del Fondo Elliott. Ma vediamo i numeri.
La parabola della Juventus
Il fatturato netto della Juventus, senza conteggiare le plusvalenze, al 30 giugno 2019 ha raggiunto il suo record storico pari a 464 milioni. Dopo lo scoppio della pandemia è sceso a una media (da fare necessariamente in quanto con l’allungamento della stagione, dopo lo stop al campionato, una serie di voci sono stata spalmate sui due bilanci) tra il 2020 e 2021 di 419 milioni. I contratti con i calciatori (al netto delle cosiddette manovre stipendi oggetto dei procedimenti penali e sportivi in atto) e gli ammortamenti invece sono cresciuti dal 2018 al 2019, specie dopo l’acquisto di Cristiano Ronaldo. Il costo del personale tesserato è salito da 233 a 301 milioni. Gli ammortamenti da 107 a 149. In pratica poco prima della pandemia la Juventus ha aumentato la spesa per mantenere la rosa da 340 a 450 milioni. La sfida rischiosa di CR7 era stata lanciata da Andrea Agnelli, dopo aver vinto 8 scudetti in fila, per portare la Juve nell’empireo dal calcio europeo, sia dal punto di vista sportivo che economico. La Juve non poteva più crescere in Italia e aveva bisogno di vincere una Champions anche per alzare il livello strutturale (senza plusvalenze) dei ricavi, tra i 500 e i 600 milioni all’anno. Non sappiamo come sarebbe andata la sfida economica che alla fine si è dimostrata disastrosa per i conti bianconeri, visto che al secondo anno di Cr7, è scoppiata la pandemia. L’unico dato a disposizione è stato il salto dei ricavi strutturali (senza plusvalenze) tra il 2018 e il 2019 pari a 60 milioni. Avendo però la Juventus un livello del costo della rosa che assorbiva tutti i ricavi strutturali, a cui si aggiungevano altri costi per oltre 100 milioni annui, si è ritrovata a perdere tra il 2020 e il 2022 oltre 550 milioni. L’aver aggregato alla rosa molti parametri zero con stipendi altissimi e altri errori gestionali hanno costretto la proprietà a 700 milioni di aumento di capitale (in realtà il primo nel 2020 da 300 milioni serviva a supportare gli investimenti, ma è stato utilizzato per far fronte alla crisi Covid). Le manovre stipendi e il ricorso sistematico al calciomercato sono state una delle risposte del club alla contrazione delle entrate e a costi divenuti a quel punto troppo alti. La magistratura ordinaria e quella sportiva stabiliranno nei prossimi mesi se le soluzioni adottate sono state lecite o illecite.
L’arretramento dell’Inter cinese
Per quanto riguarda l’Inter, la proprietà cinese di Suning dal 2016 al 2020 ha sostenuto il club con risorse per oltre 500 milioni tra aumenti di capitale, prestiti (la maggior parte dei quali convertiti in capitale) e sponsorizzazioni. Grazie a questi investimenti l’Inter al termine della stagione 2019/20 bloccherà il ciclo di nove scudetti della Juventus e si aggiudicherà lo scudetto, arrivando al secondo posto nel 2021. Le stagioni successive, tuttavia, sono quelle contrassegnate dal Covid e dalla contrazione dei ricavi, rispetto alla quale la manovra espansiva e gli investimenti sui calciatori avviati dopo il settimo posto del 2017, con la stagione 2018/19 e Spalletti in panchina e soprattutto con quella 2019/20 contrassegnata dall’arrivo di Antonio Conte faranno sentire il loro impatto. Gli stipendi per il personale tesserato salgono dai 120 milioni della stagione 2017/18 ai 163 della 2019/20 per attestarsi su una media superiore ai 200 milioni nelle due stagioni successive. Gli ammortamenti dei cartellini passano dagli 80 milioni della stagione 2017/18 ai 123 milioni della stagione 2019/20 e ai 153 di quella successiva (per poi calare a 117 in quella 2021/22). In altre parole, il costo della rosa (ingaggi più ammortamenti) dell’Inter per tornare al vertice del calcio tricolore è salito dai 200 milioni della stagione 2017/18 ai 368 della stagione 2020/21. In piena pandemia il club si è ritrovato con investimenti e spese in crescita e ricavi ristagnanti. Va detto che al 30 giugno 2019 l’Inter aveva ottenuto il record di fatturato con 366 milioni di ricavi (senza conteggiare le plusvalenze). Un livello che nei tre anni della pandemia è sceso a una media di 320 milioni. Ciò ha determinato un rosso complessivo nel triennio 2020-2022 di circa 490 milioni (-245 milioni nella stagione 2020/21). Il tutto è avvenuto peraltro con il cambio di strategia di Suning che per vari motivi (dalle difficoltà interne che hanno colpito il colosso di Nanchino per investimenti sbagliati, la pandemia e i diktat della politica del partito comunista cinese) ha limitato al lumicino il suo apporto, proprio nella fase di contrazione dovuta al Covid. Le perdite hanno aggravato così il livello di indebitamento e i connessi oneri finanziari. Il vero fardello per la dirigenza nerazzurra che nei tre anni della pandemia ha dovuto pagare oltre 110 milioni di interessi passivi.
La risalita del Milan di Elliott
Nel luglio 2018 il fondo d’investimento Elliott ha assunto il controllo del club rossonero, escutendo il pegno sul club dopo un inadempimento del discusso proprietario cinese Yonghong Li (tuttora in causa con lo stesso fondo Elliott dopo il passaggio delle quote a RedBird). Il Milan che al 30 giugno 2018 aveva registrato perdite per 126 milioni, l’anno dopo, al 30 giugno 2019 ha perso altri 146 milioni e al 30 giugno 2020, dopo lo scoppio della pandemia, ha perso altri 195 milioni. Nel giugno del 2019 il club veniva escluso dalla Uefa dalle competizioni europee per la situazione economica, con il fatturato netto (senza plusvalenze) calato da 215 a 164 milioni tra il 30 giugno 2019 e il 30 giugno 2020. L’ingresso di Elliott è stato fondamentale per rimettere i conti in ordine (il fondo Usa ha immesso risorse nel club per 530 milioni dall’agosto 2018 alla cessione a RedBird) e scongiurare il declino. I manager scelti da Elliott sono stati bravi a modulare al meglio gli investimenti una volta scoppiata la pandemia. Tra il 2018 e il 2019, per gli impegni contrattuali già assunti, il costo del personale tesserato è salito da 134 a 168 milioni, ma progressivamente è stato fatto scendere intorno ai 140 milioni negli anni seguenti. Gli ammortamenti che nel biennio 2018-2019 viaggiavano sugli 80 milioni annui sono saliti a 94 nel 2020 per poi ridiscendere a 65 milioni l’anno dopo. Livelli di spesa compatibili con una crescita del fatturato netto che la vittoria dello scudetto nel 2021 e il ritorno in Europa ha riportato già nel 2021 a quota 232 milioni e a 270 nel 2022, con conseguente contrazione delle perdite. Il club rossonero targato Elliott, avendo scommesso soprattutto su giovani calciatori dalle retribuzioni non eccessive, ha registrato nel triennio 2019-22 un deficit complessivo di 356 milioni ma in progressivo calo (da 194 a 66 milioni).