Non ci si poteva illudere che il calcio fosse immune dai mali cronici del Paese, neppure da quelli che discendono da una giustizia, lenta, troppo spesso farraginosa e incapace di dare certezze. Permettendo di scrivere la parola fine su vicende che diventano così un pantano sempre più viscoso, che toglie lucidità a chi vi si è immerso, più o meno coscientemente, impedendogli di guardare al futuro con quell’energia che sarebbe invece indispensabile per rifondare un sistema sempre più inadeguato. Dopo nove anni la Corte di cassazione si è pronunciata martedì scorso su Calciopoli, senza dubbio una delle pagine più buie del football tricolore, lasciandosi dietro però più strascichi polemici e scorie giudiziarie che motivi di pacificazione. Tutti i protagonisti dello scandalo che ha spaccato l’Italia del tifo, contribuendo ad avvelenare una Lega che ancora oggi agisce più come un condominio litigioso che come il cda di un’unica Spa (come avviene in Premier o nelle Leghe Usa), sono ora in attesa di leggere le motivazioni con cui la Suprema corte ha cancellato le condanne irrogate nei precedenti gradi di giudizio sotto la mannaia della prescrizione. Se i principali accusati Luciano Moggi e Antonio Giraudo, all’epoca direttore generale e ad della Juventus, rivendicano la propria innocenza, i sostenitori dell’esistenza della “cupola” padrona del destino di arbitri e campionati, si attaccano al valore probante dell’unica condanna confermata dalla Cassazione, quella dell’ex arbitro Massimo De Santis (l’unico che aveva rinunciato alla prescrizione) proprio per «associazione a delinquere». Un passaggio chiave, questo, perché se la Cassazione non ha riconosciuto l’innocenza degli imputati ma solo l’avvenuta scadenza dei termini previsti dalla legge per la loro punibilità, si spalancherebbero le porte alle richieste di risarcimento danni. La Juventus presieduta da Andrea Agnelli ha da tempo depositato al Tar del Lazio una richiesta di 443 milioni per i danni subiti a causa delle decisioni della giustizia sportiva e della retrocessione inflitta al club bianconero, certamente il più penalizzato rispetto ad altri che si sono a vario titolo “salvati”, a cominciare dall’Inter di Massimo Moratti. Una richiesta che però alimenta la litigiosità tra quelle istituzioni che al contrario dovrebbero traghettare la Serie A nella nuova era del calcio globale. Il presidente della Figc, Carlo Tavecchio, ha già riacceso le polveri spiegando che se la sentenza conferma «che un reato non di poco conto c’è stato», la richiesta della Juventus «nei nostri confronti è lite temeraria». Benzina sul fuoco di un movimento che rischia così di perpetuare inutili discussioni basate su risentimenti reciproci e sospetti, su schede telefoniche clonate e linee del fuorigioco “compiacenti”, senza essere capace di prendere definitivamente le distanze da un mondo e da certi metodi di gestione del calcio che è un bene collettivo. Il tutto mentre un club di Serie A finisce in bancarotta e nel mirino del riciclaggio, l’indebitamento lordo dei club sfiora i 3 miliardi a fronte di ricavi operativi (senza plusvalenze) di 1,8 miliardi e costi annuali di 2,5 miliardi. Un sistema rimasto “paralizzato” da dieci anni, quando i club italiani avevano ricavi analoghi alle big d’Europa che invece oggi viaggiano con budget da oltre 500 milioni, mentre la Bundesliga fattura 2,5 miliardi all’anno e la Premier League nel triennio 2016/19 si appresta ad incassare per i soli diritti tv circa 13 miliardi di euro.
(Dal Sole 24 Ore del 26 marzo 2015)