Premesso che è sempre difficile, e in molti casi azzardato, analizzare il lavoro dei magistrati, sia inquirenti che giudicanti, non si può non restare sbigottiti di fronte alle letture dei fatti, talvolta diametralmente opposte, a cui si assiste nel passaggio da un organo all’altro, prima ancora che da un grado a quello successivo. Lo “scandalo” Infront, scoppiato con grande clamore nel 2015, è esemplare in questa prospettiva. Come è possibile che di fronte agli stessi eventi e alle medesime circostanze i magistrati sfornino diagnosi tanto differenti? Come è possibile una tale discrasia essendo eguale per tutti l’apparato normativo alla luce del quale emettere i “verdetti” di propria competenza?
Secondo l’ipotesi accusatoria della Procura di Milano, infatti, gli allora manager di Infront Italy Marco Bogarelli e Giuseppe Ciocchetti e il proprietario di Mp&Silva Riccardo Silva, distributore dei diritti tv della Serie A all’estero, fin dal 2009 erano stati il perno di un’associazione a delinquere «finalizzata a commettere una serie indeterminata di delitti, tra i quali turbativa d’asta, autoriciclaggio, truffa aggravata, ostacolo alle funzioni di vigilanza, evasione fiscale e tutti quei reati di volta in volta necessari per governare i processi di sfruttamento dei diritti audiovisivi del calcio, con l’impossessamento di denaro che avrebbe dovuto entrare nelle casse della Lega”. Nel registro degli indagati figuravano anche Enrico Preziosi e Claudio Lotito (Adriano Galliani viene citato negli atti ma mai formalmente indagato). In virtù di ciò i pm Pellicano, Filippini e Polizzi hanno chiesto l’arresto per Bogarelli, Ciocchetti e Silva.
La richiesta è stata respinta una prima volta dalla gip Manuela Accurso Tegano. I Pm hanno fatto ricorso e il Tribunale del Riesame ieri non solo ha confermato il diniego della misura cautelare, ma ha praticamente stroncato l’inchiesta. Scrivono i giudici: “La disintegrazione delle ipotesi accusatorie dei delitti scopo finisce per rendere evanescente qualsiasi considerazione sull’esistenza dell’associazione per delinquere”. L’accusa di turbativa d’asta è stata tranciata. Come già aveva fatto del resto il Tar del Lazio nel novembre 2006 annullando la sanzione emessa sette mesi prima dall’Antitrust che aveva condannato Infront, Mediaset e la Lega calcio a pagare multe milionarie. Per i giudice del Riesame, “il decreto Melandri, nel disciplinare la commercializzazione dei diritti, non ha affatto inteso attribuire alcuna connotazione pubblica ai soggetti chiamati a operare e non tutela affatto un interesse pubblico (tale non è certo guardare partite di calcio), ma la libera concorrenza, imponendo unicamente all’organizzatrice Lega Calcio di predeterminare linee guida”. I pm insomma hanno “errato la qualificazione giuridica nel confondere la licitazione privata con la trattativa privata”.
Dunque non ci sono stati reati nelle aste 2009-2011-2014 sui diritti tv del calcio, né associazione per delinquere e neppure l’ostacolo all’organo di vigilanza Covisoc sui bilanci delle squadre, né l’autoriciclaggio dei manager Infront che invece per i pm avevano “veicolato proventi di violazioni fiscali sotto forma di fittizi sponsorizzazioni o aumenti di capitale di Genova, Bari e Brescia”.
Quanto a Riccardo Silva, scrivono ancora i giudici del Tribunale del Riesame, “se un imprenditore si aggiudica un prodotto al minor costo praticabile e poi è in grado di rivenderlo al massimo valore di mercato, non si può certo dire che abbia truffato il venditore solo perché ha saputo massimizzare i suoi profitti della distribuzione all’estero. Così ragionando l’intera economia poggerebbe su reiterati comportamenti fraudolenti». E ancora: “MP&Silva ha sempre depositato offerte più alte rispetto agli altri concorrenti. Ciò che è riuscito a guadagnare immettendo sul mercato estero, con grande profitto, i diritti audiovisivi legittimamente acquisiti non può certo rappresentare indice di fraudolenza”.
Per il Tribunale, in ultima analisi, c’è stato un tradimento della fiducia da parte di Infront con la Lega Calcio (“più pertinente alla giustizia sportiva che a quella ordinaria”) per la “spregiudicatezza” delle operazioni finanziarie tanto “azzardate” quanto “molto ben congegnate” messe in atto, ma ciò “non può essere confuso con la commissione di reati perché gli interessi economici sono stati sì perseguiti nell’interesse loro e di tutti coloro che si sono solo intravisti nelle indagini (come appunto «Galliani, Preziosi, Lotito, Paparesta»), ma anche in egual misura della Lega Calcio che non ha subìto alcuna truffa, e delle piattaforme tv partecipi ai bandi”.
Due versioni completamente diverse su cui adesso, si spera, il Tribunale di Milano possa pronunciarsi in sede di merito definendo una verità “giudiziaria” definitiva che dia certezze e riassegni correttamente responsabilità e onorabilità. Il calcio italiano, già invischiato in troppi affari loschi in passato, meriterebbe di poter guardare al futuro con fiducia, senza scheletri nell’armadio e senza più pregiudizi, badando solo a quelle riforme improcrastinabili e indispensabili per tenere il passo della Sport Industry globale.