Di maxi-plusvalenze il calcio italiano si è già infettato all’inizio degli anni Duemila. Ora l’abuso del player trading è sotto gli occhi di tutti. Come una recente inchiesta della Gazzetta dello Sport, di Marco Iaria, ha dimostrato tra il 2013-14 e il 2017-18 le società di Serie A hanno accumulato 2.673 milioni di euro di plusvalenze da cessione giocatori. Nel quinquennio esaminato solo la Premier League ha registrato lo stesso livello di plusvalenze (2.686 milioni) ma con un giro d’affari quasi triplo della A. Nettamente indietro la Bundesliga (2.161 milioni) e la Liga (1.815). Nel campionato italiano il livello delle plusvalenze è cresciuto soprattutto nella stagione 2016/17 quando sono quasi raddoppiate rispetto all’anno precedente superando quota 700 milioni. Come opportunamente notava Iaria “se in quell’esercizio l’exploit era parzialmente giustificato dalle vendite-record di Pogba (96,5 milioni di guadagno per la Juve) e Higuain (86 per il Napoli), nel 2017-18 la voce è ulteriormente cresciuta senza grandi crack (il picco i 39,1 milioni della Fiorentina per Bernardeschi) fino a toccare i 738 milioni”.
Rimandando a quanto già scritto lo scorso 1° marzo sul tema, spigando i motivi dell’allarme e del riapparire della “bolla” del 2002 è il caso di provare a proporre una soluzione per arginare il problema. Quell’articolo, infatti, si concludeva con un auspicio: “Laddove emerga un sistema volto ad abbellire/correggere i bilanci con cessioni gonfiate o fittizie, le istituzioni calcistiche dovrebbero trovare il coraggio di stabilire nuove e proprie regole di valutazione il più possibile precise e combattere questo doping amministrativo”.
Ora è chiaro che non esistendo criteri oggettivi per stabilire a priori se una transazione di calciomercato è fatta al giusto prezzo e non potendosi limitare la libertà delle imprese calcistiche una soluzione va individuata a monte. Dal player trading peraltro non si può più prescindere. Non sarebbe giusto demonizzare quella che è una leva economica oramai consolidata per i club calcistici. Ma proprio perché è entrata a pieno titolo nel modello industriale del settore allora è possibile affermare che il perfetto equilibrio cui le società calcistiche devono tendere è di una corretta proporzione delle voci di entrata anche includendo gli effetti di quest’attività. Se finora si è generalmente notato che i club “sani” tendono ad avere ricavi dipendenti per un terzo da tv e media, per un terzo dallo stadio e per un terzo dall’area commerciale, allora si può sostenere che sarebbe opportuno che i team abbiano in futuro il 25% degli introiti dalle tv, il 25% dallo stadio, il 25% da sponsor e merchandising e appunto il 25% del player trading.
È altrettanto evidente che una ripartizione di questo tipo non può essere imposta dall’alto. Deve essere una scelta dei manager e delle proprietà. Però la Uefa e le istituzioni calcistiche nazionali, fermo restando che ogni club può vendere tutti i giocatori che vuole e fare tutte le plusvalenze che è capace di realizzare, potrebbero intervenire sancendo che ai fini del fair play finanziario e delle regole patrimoniali interne per l’iscrizione ai campionati – e dunque fondamentalmente nell’ottica del pareggio di bilancio – potranno essere conteggiate solo plusvalenze e ritorni dal player trading (prestiti onerosi) che non oltrepassino il 25% del fatturato operativo (senza calciomercato) della società.
Ad esempio, se un club fattura senza plusvalenze 100 milioni, e nel frattempo opera cessioni con 50 milioni di plusvalenze contabili, ai fini civilistici registrerà un bilancio con 150 milioni di ricavi, ma ai fini del fair play finanziario Uefa e nazionale saranno conteggiati ricavi pari a una massimo di 125 milioni.
È vero che una limitazione di questo tipo consentirà ai club con maggiori ricavi operativi di fare in termini assoluti più plusvalenze di un piccolo club. Ma è vero anche che ancorando il limite percentuale delle plusvalenze “rilevanti” ai ricavi operativi si stimolerà i club di qualunque dimensione a sforzarsi di incrementare questi ultimi prima di ricorrere alla facile scorciatoia del calciomercato.
La Figc ha dimostrato che è stato possibile bloccare l’abuso di un istituto come il diritto di recompra, molto di moda di due anni fa, e che si prestava spesso a operazioni contabili dubbie posticipando l’iscrizione in bilancio della plusvalenza all’esercizio o meno dei diritto. Ora la “sterilizzazione” delle plusvalenze al 25% del fatturato potrebbe sortire effetti positivi. Ma solo se applicata con la concorde volontà di istituzioni calcistiche e club, almeno a livello continentale.
p.s.
Mi è stato fatto notare che la soluzione prospettata danneggerebbe quelle società che in un anno particolare riescono a vendere tanto e bene uno o più calciatori e magari non lo fanno in altri anni. Si tratta di una eccezione condivisibile. L’effetto penalizzante potrebbe essere perciò mitigato misurando la percentuale sulla media triennale di fatturato e plusvalenze, coerentemente con le valutazioni triennali di dati contabili che vengono fatte sia a livello Uefa che di singole federazioni.