Le sponsorizzazioni dirette alle 32 Nazionali che in queste settimane scenderanno in campo nei Mondiali di calcio brasiliani si avviano a sfondare la soglia dei 500 milioni di euro. Ricavi che vanno ad aggiungersi al miliardo di euro incassato dalla Fifa (su 4,5 di introiti totali) dall’area commerciale grazie alla «Copa».
Il sostegno garantito alle federazioni da sponsor tecnici e partners commerciali non sta solo crescendo dal punto di vista quantitativo, ma si sta evolvendo anche qualitativamente, nel solco di un marketing che vede nelle sponsorizzazioni sempre meno un mero veicolo di esposizione dei brand, e che tende invece a creare “simbiosi” e percorsi di identificazione positiva fra marchi e performance sportive.
L’elevata “sensibilità” degli sponsor, che va di pari passo con il peso dei loro investimenti, è testimoniata dalla clamorosa protesta con cui appena giorno fa cinque dei sei principali partners della Fifa (Coca Cola, Visa, Adidas, Hyundai e Sony, con la sola eccezione della compagnia aerea Emirates), hanno chiesto all’organo di governo del calcio mondiale di fare quanto prima chiarezza sui criteri che hanno portato ad assegnare l’edizione 2022 al Qatar e soprattutto sull’operato del qatariota Mohammad Bin Hammam, ex membro della Fifa, accusato di aver distribuito oltre tre miliardi e mezzo di euro per comprare voti in favore del suo Paese.
Gli sponsor e i partner che affiancano le 32 finaliste del “Mondiale dei mondiali” sono più di 350 per un totale di circa 400 accordi. Da un lato, ci sono gli sponsor tecnici (capitanati dai big Adidas e Nike) che si contendono a suon di milioni “fabbricazione” e griffe delle tenute da gioco indossate dagli atleti, dall’altro lato ci sono le centinaia di aziende, multinazionali o di dimensione regionale, che attraverso modelli e impegni finanziari di vario tipo associano il proprio marchio alle singole Federazioni nazionali.
Adidas e Nike, i due colossi dell’abbigliamento sportivo, si sono dati battaglia in questi mesi per “vestire” il maggior numero di Nazionali impegnate al Mondiale. Alla fine ha vinto di misura la multinazionale Usa che ha speso una cifra di quasi 140 milioni per mettere sotto contratto 10 compagini, a fronte di un investimento di circa 100 milioni di Adidas per una rosa di nove squadre. Una in più dell’azienda “gemella” tedesca Puma che ha in “organico” otto Nazionali, tra cui l’Italia, con un esborso economico nettamente inferiore (30/35 milioni). L’unico team che avrebbe potuto utilizzare materiale italiano è la Bosnia con Legea, azienda fondata nel 1993 a Pompei, ma all’inizio di giugno ha firmato per Adidas.
Per quanto riguarda l’ampia gamma dei partner commerciali sono i brand globali legati al largo consumo (automotive, tlc, banche, bevande e prodotti alimentari) ad aver fatto “incetta” di nazionali di calcio, da Coca Cola a Volkswagen, da Gillette a Samsung, da Mc Donald’s a Movistar, senza dimenticare Claro, la più grande compagnia telefonica delle Americhe, Continental e Allianz. La Figc, che ottiene in generale dalle voci “pubblicità e sponsorizzazioni” circa 40 milioni a stagione, come emerge dal bilancio sociale, ha siglato intese con Tim, Compass, Fiat (che sono i tre top sponsor), Uliveto, Dolce e Gabbana, Generali, Pai, Nutella, Alitalia e Garnier Fructis.
Mediamente ciascuna delle 32 Nazionali del Mondiale 2014 ha ormai una decina di alleati commerciali per un totale di circa 400 contratti pubblicitari il cui valore medio è intorno ai 500mila euro (ovviamente si tratta di una media “trilussiana” falsata dalla caratura delle Nazionali) per un cifra complessiva sopra i 200 milioni.
Ad ogni modo, per continuare a far prosperare questo mercato sarà necessario non sporcare (ulteriormente) l’immagine del calcio con altri scandali. Ma si dovrà anche aggiornare il quadro normativo per tutelare gli investimenti degli sponsor. Con i Mondiali 2014 sta tornando d’attualità, per esempio, il fenomeno dell’ambush marketing. Un’espressione traducibile come “pubblicità d’imboscata” che viene usata per indicare l’abbinamento abusivo, in quanto non autorizzato dagli enti organizzatori e in assenza di un corrispettivo, di un brand (quando lo stesso cioè non appartenga ad uno degli sponsor ufficiali) ad un evento sportivo per sfruttarne l’impatto mediatico, di solito con l’obiettivo di distogliere l’attenzione dal concorrente che è lo sponsor ufficiale. In Europa vi sono due Direttive la 2205/29 e la 2006/114 Ce che richiamano la questione ma senza affrontarla. «Mentre in Italia – spiega l’avvocato Désirée Gaspari che sull’argomento ha appena pubblicato un libro (“Quello strano caso di ambush marketing” edito dalla Ludes University Press di Lugano) – a parte un riferimento nella legge n. 167/05 a misure per la protezione del simbolo dei Giochi Invernali Torino 2006 da attività di commercializzazione parassita, manca una legge di tutela della materia che viene solo contrastata applicando la disciplina sulla concorrenza sleale. Nel mese di aprile 2014 è stato pubblicato dall’Osservatorio dello Sport il documento conclusivo denominato “Nuove Misure per la sicurezza delle manifestazioni sportive” in cui si prevedono iniziative contro l’ambush marketing e la contraffazione dei marchi. Dovrebbe essere un’occasione da non sprecare per dare più certezza a chi vuole investire sui brand sportivi».
(dal Sole 24 Ore del 15 giugno 2014)