Ronaldinho, Pato, Seedorf. E tra qualche settimana, Robinho e forse Kakà. Sono solo alcuni dei campioni “rimpatriati” nelle ultime stagioni per scendere in campo nel Brasileirao. E non è solo una questione di saudade. Gli ingaggi che i club brasiliani possono permettersi, infatti, sono di tutto rilievo. Sfruttando la scia della crescita dei cosiddetti “Bric” (Brasile, Russia, India e Cina) il calcio brasiliano è letteralmente esploso. Fra il 2007 e il 2012, come segnalano le analisi degli analisti di Bdo e Deloitte, il fatturato dei club verdeoro è aumentato da 460 milioni a 880 milioni di euro, un’impennata del 90%, dovuta principalmente, ma non solo, ai nuovi contratti televisivi con Globo Esporte dell’ultimo biennio. La trasformazione del modello di business calcistico brasiliano è più profonda come testimoniano i cambiamenti nella struttura dei ricavi. Se nel 2007 gli introiti legati al calciomercato rappresentavano il 37% del giro d’affari complessivo, oggi rappresenta circa il 15%, mentre è aumentato il peso dei diritti tv (passati dal 22 a circa il 40% dei ricavi) e degli incassi legati a sponsorizzazioni e pubblicità (saliti dal 12 al 20% circa). In cima alla classifica delle società con il maggior fatturato c’è il Corinthians, campione del mondo per club 2012, con 100 milioni seguito da San Paulo (78 milioni), Internacional (68 milioni), Santos (65), Flamengo (64), Palmeiras (51), Gremio (49), Vasco de Gama (47), Cruzeiro (44) e Atletico Mineiro (34). Certo, i big europei sono ancora lontani, ma con questi ricavi i primi dieci club brasiliani potrebbero competere con squadre di fascia media del Vecchio Continente come Roma e Newcastle che sono agli ultimi due posti della Top20 Deloitte 2012 fatturano 115 milioni. Tuttavia, va sottolineato il pericolo che questa crescita risulti in qualche modo “drogata” dalle tv e che invece non benefici dell’ammodernamento degli impianti collegato ai Mondiali del 2014 (i ricavi da stadio sono su livelli “italiani” al 10% del totale). Si stanno manifestando, in effetti, criticità simili ai peggiori esempi europei: il costo del lavoro è salito da 300 a 550 milioni di euro fra il 2007 e il 2012, al di sopra della soglia di sicurezza del 70% in rapporto al fatturato. Questo disequilibrio si riflette nei risultati di gestione e nelle perdite accumulate fra il 2007 e il 2012, che superano i 500 milioni di euro e nell’indebitamento netti che nel 2011 ha superato quota 1,5 miliardi di euro.
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