Se la squadra sponsorizzata gioca male e retrocede, lo sponsor non può chiedere il risarcimento dei danni ritenendo lesa propria “immagine”. Neppure se la tifoseria si è dimostrata indisciplinata al punto da provocare la squalifica del campo. Il principio sancito dalla Cassazione con la sentenza 8153, depositata ieri, è di quelli destinati a far discutere, soprattutto in considerazione del crescente peso che hanno le sponsorizzazioni nel mondo del calcio sempre più veicolo di valorizzazione dei brand aziendali.
La vicenda su cui si sono pronunciati i giudici della Cassazione riguarda il Como e la nefasta stagione 2002-2003 culminata con la retrocessione dalla serie A alla B e caratterizzata da reiterati episodi di incidenti sugli spalti, causa di match persi a tavolino e chiusure dello stadio. Lo sponsor ufficiale del club, all’epoca del fatti di proprietà di Enrico Preziosi (attuale presidente del Genoa), era la Temporary, azienda di fornitura di lavoro temporaneo. Al termine di quella sfortunata annata, la Temporary non solo si era rifiutata di saldare la sponsorizzazione, versando ulteriori 180mila euro, ma, citata in giudizio, aveva chiesto il risarcimento dei danni, in quanto il Como «aveva dato pessima prova di sé, vanificando lo scopo perseguito di ritrarre dalla sponsorizzazione anche vantaggi di immagine e di promozione dei suoi servizi» e perché «il Presidente ha rilasciato ai giornali interviste discutibili».
In particolare, lo sponsor ha reclamato la violazione dei doveri di correttezza e di buona fede che «impongono allo sponsorizzato di astenersi da comportamenti sconvenienti e da dichiarazioni denigratorie della società sponsorizzata, tali da mettere in pericolo i vantaggi commerciali e di immagine che lo sponsor si ripromette di ritrarre», rimarcando come la «gestione poco felice del Presidente Preziosi» abbia «comportato per la Como calcio un buco di sei milioni di euro con il conseguente fallimento e l’imputazione di bancarotta fraudolenta» e come, infine, a partire dal gennaio 2003, subito dopo la squalifica del campo, l’azienda abbia subito un consistente calo dei profitti.
Una richiesta rigettata dal tribunale e dalla Corte d’appello con motivazioni ora confermate dalla Cassazione per la quale «il mero diffondersi di notizie clamorose, anche in negativo, attinenti alla società sponsorizzata, non è detto che abbia sempre e necessariamente effetti negativi per lo sponsor, sul piano pubblicitario. Il clamore e la notorietà fanno comunque circolare il nome e i segni distintivi associati al soggetto di cui si parla, in un mondo – qual è quello della pubblicità – ove non rileva quanto che si parli bene, ma che si parli, di chi vuol essere conosciuto e ricordato».
(Dal Sole 24 Ore del 9 aprile)