Cori razzisti e curve chiuse per discriminazione hanno danneggiato per l’intera stagione l’immagine del Calcio italiano nel mondo. Un’immagine già in netto declino e che paradossalmente viene ora macchiata, sempre per accuse di “razzismo”, dal principale candidato alla presidenza della Figc nelle elezioni dell’11 agosto, Carlo Tavecchio. Frasi su banane ed extracomunitari pronunciate venerdì scorso all’assemblea della Lega Nazionale Dilettanti, che hanno creato qualche spaccatura nella solida maggioranza che lo sostiene, ma che soprattutto ieri hanno provocato le reazioni del mondo politico italiano e delle istituzioni internazionali. La Fifa ha chiesto alla Federcalcio italiana di indagare e riferire, e la Commissione Ue per bocca del portavoce, Dennis Abbott, ha sottolineato come “il razzismo e ogni altra forma di discriminazione non devono avere posto nel calcio” (peccato non aver ascoltato condanne così solerti nelle vicende politiche e sportive accadute in altri paesi Ue come Ungheria, Bulgaria e Grecia dove frange di tifoseria e perfino alcuni calciatori sono abituati ad esultare con inni nazisti e antisemiti).
Un’altra brutta pagina, in ogni caso, per il movimento calcistico italiano alle prese con una crisi epocale, in piena “sintonia” con il resto del paese si direbbe, che ieri ha investito anche il galà della Serie A che presentava a Milano il calendario del prossimo campionato. Un torneo, quello tricolore, che appena un decennio fa poteva competere ad armi pari con le altre Leghe europee, ma che da anni non riesce più ad aumentare il suo giro d’affari.
Di colpo, dunque, anche in ambito politico si discute della “appropriatezza” della candidatura del settantenne Tavecchio, presidente dei Dilettanti dal 1999, al quale si oppone l’ex calciatore quarantenne, nonché vicepresidente dimissionario della Figc, Demetrio Albertini.
Ma non di una banale sfida tra giovani e vecchi in salsa rottamatrice ha bisogno il Calcio italiano, quanto di un confronto tra personalità con comprovati requisiti manageriali, capacità di portare avanti una visione d’insieme e non “condominiale” centrata su investimenti infrastrutturali e una “sana” programmazione.
Non va dimenticato che la Figc è un’azienda con un budget annuale fra i 130 e i 150 milioni milioni, circa metà dei quali arrivano dal contributo pubblico del Coni e l’altra metà da diritti tv e sponsorizzazioni (alcuni degli sponsor storici della Nazionale, peraltro, avrebbero fatto già sapere che non rinnoverebbero a fine anno i contratti in caso di elezione di Tavecchio). Risorse che possono essere messe a disposizione di riforme vere e ormai improcrastinabili (dallo sport nelle scuole alla ristrutturazione dei campionati). Si dirà, per esempio, che la Federazione può poco per convincere i club, società di diritto privato, a investire sui giovani italiani. Eppure in Germania la coesione tra Bundesliga e Federazione, dopo la delusione dell’Europeo del 2000, associata a nuove politiche di integrazione, a investimenti nei vivai e al rigore nella gestione dei bilanci ha reso possibile il “miracolo” di una Nazionale Campione del Mondo e di un campionato che ha superato i due miliardi di fatturato.
La sconvolgente coincidenza a fine giugno di una tragedia (la morte del tifoso napoletano Ciro Esposito, ferito nella serata della finale di Coppa Italia) con l’eliminazione della Nazionale al Mondiale brasiliano ha messo definitivamente a nudo l’arretratezza del modello calcistico tricolore e avrebbe dovuto richiedere uno sforzo eccezionale. Le dimissioni congiunte del Presidente della Figc Giancarlo Abete e del ct Cesare Prandelli sono state un atto onorevole ma hanno aperto una crisi “politica” da cui invece si è pensato bene in queste settimane di uscire con un accordo frutto di una scriteriata legge Melandri che assegna il 51% dei voti in Figc a Lega Pro e Dilettanti e di intese consociative che, al di là delle persone, hanno quelle caratteristiche di conservatorismo che nulla di buono lasciano presagire.
(Dal Sole 24 Ore del 29 luglio 2014)