L’allarme rosso per il Calcio italiano Spa è suonato da un pezzo. Anche se gran parte della classe dirigente ha preferito fare finta di nulla, continuando a vivere nel fasullo lusso generato dagli introiti televisivi che negli anni Novanta hanno alimentato il mito del “campionato più bello del mondo”, ma che allo stesso tempo hanno decretato l’inesorabile declino di un movimento incapace di produrre risorse alternative. C’è poco da meravigliarsi, perciò, se in cinque anni, dal 2009 al 2014, Serie A, Serie B e Lega Pro hanno accumulato perdite per 1,8 miliardi e l’indebitamento complessivo è salito da 2,8 a 3,7 miliardi. La debolezza strutturale del calcio tricolore si riverbera nella costante erosione del patrimonio netto dei club calato ad appena 273 milioni: in pratica, come sottolinea il Report calcio 2015 elaborato dalla Figc, Pwc e Arel, su ogni 100 euro investiti nelle società, 93,7 dipendono da indebitamento esterno. La sola Serie A nella stagione 2013/14 ha registrato un deficit di 186 milioni, e rispetto ai 619 milioni del 2009 ha maturato debiti finanziari per 1,1 miliardi di euro. Una situazione sostanzialmente fallimentare, che ha svariate cause, quasi tutte note quanto insolute. E che sta spingendo, dopo Inter, Roma e Bologna, un altro grande club tricolore come il Milan in mani straniere per trovare una via d’uscita alla crisi.
Stadi e sponsor
La fotografia dell’impiantistica sportiva è quella di stadi vecchi e sempre più vuoti, nonostante la stagione 2013/14 abbia mostrato qualche lievissimo miglioramento: sono stati infatti 13,1 milioni gli spettatori ad aver assistito dal vivo alle partite nei campionati di Serie A, Serie B e Lega Pro e il botteghino è stata l’unica voce in aumento dell’azienda calcio: 221 milioni di ricavi, +0,2% rispetto al 2013 (nel 2009-10 si incassavano 275 milioni). Ma ci si ferma qui con le buone notizie. L’età media degli stadi della massima serie raggiunge i 62 anni. In termini di affluenza, inoltre, l’Italia resta dietro alle big europee. Con 23.011 spettatori presenti in media a partita e un tasso di riempimento degli impianti di poco superiore al 50%, quarta in Europa, dietro Bundesliga (43.499), Premier League (36.670) e Liga (26.995). Il campionato tedesco e quello inglese hanno tassi di occupazione che oltrepassano il 90 per cento. Tanto che i proventi da stadio in A sono solo il 10% dell’intero monte ricavi. Negli altri principali campionati del vecchio continente, invece, si passa dal 21% della Premier League al 23% di Bundesliga e Liga. Le eccezioni della Juventus che ha uno stadio di proprietà da alcune stagioni, dell’Udinese che sta ultimando la ristrutturazione del Friuli e del Sassuolo che ha acquistato l’impianto di Reggio Emilia ammodernandolo, restano isolate. In altre realtà, da Milano a Napoli, a Firenze, finora non si è andati oltre le manifestazioni d’intenti e i plastici. La As Roma che per prima sta cercando di sfruttare la corsia preferenziale della disciplina ad hoc dettata dalla legge di Stabilità per il 2014, dopo aver ricevuto le prime autorizzazioni da parte del Campidoglio, ha dovuto rinviare a fine anno la posa della prima pietra e stenta a far decollare il progetto da 1,2 miliardi di euro, anche per alcune incongruenze sulla proprietà dell’impianto (che è di James Pallotta e del costruttore Parnasi e non direttamente del club) e sull’equilibrio delle volumetrie tra quelle per lo stadio e quelle “compensative” riservate a uffici e strutture commerciali (il cosiddetto Business Park). Per il Calcio italiano Spa vanno ancora peggio le cose sul versante commerciale e delle sponsorizzazioni. L’incremento di questo tipo entrate tra il 2009-10 e il 2013-14 è stato di 4 milioni (da 370 a 374 milioni). Real Madrid e Manchester United incassano in questo ambito circa 230 milioni a testa e il Bayer Monaco 292 milioni.
Fatturato e costi
I ricavi del Calcio italiano Spa sono cresciuti, si fa per dire, in cinque anni da 2,5 a 2,7 miliardi (incluse le plusvalenze da calciomercato per quasi 530 milioni). Quelli della Serie A sono pari a 1,8 miliardi (al netto di 443 milioni di plusvalenze, che sommate ai diritti tv coprono i due terzi del giro d’affari complessivo). I costi operativi nella stessa fase sono passati da 2,8 a 2,9 miliardi (1,4 miliardi di costo del lavoro e 637 milioni di ammortamenti) nonostante la “cura dimagrante” imposta nelle ultime stagioni dal fair play finanziario Uefa e dal passo indietro di tanti mecenati. La Serie A, in altri termini, non è ancora riuscita a perdere la cattiva abitudine di dilapidare i lauti introiti televisivi che nel triennio 2015-18 saranno pari a 1,2 miliardi (a meno che l’Antitrust non giunga a contestare l’esito gara dello scorso anno a seguito dell’istruttoria avviata lo scorso martedì per un presunto “cartello” Sky-Mediaset), senza destinarne una quota in nuove infrastrutture. Fra il 1998 al 2013, i club della Premier laegue hanno incassato 31 miliardi di euro e ne hanno spesi solo 27 per mantenere gli organici (circa 20 in stipendi e 7 per gli ammortamenti dei cartellini). I team della Liga spagnola nello stesso periodo hanno raccolto 18 miliardi e ne hanno spesi per i giocatori 15 (11 per gli ingaggi e 4 per i cartellini), mentre nello stesso periodo le società della Bundesliga hanno realizzato 19,5 miliardi di ricavi, spendendone solo 13 (10 per gli ingaggi e 3 per i cartellini) e mettendo in cassa un surplus di 6,5 miliardi. I club della Penisola, al contrario, pur avendo raddoppiato il proprio fatturato con i contratti tv fino a 19 miliardi, hanno “sperperato” 14 miliardi in stipendi e 5 miliardi per gli ammortamenti.
Un’altra estate tra default e tribunali sportivi
Questo squilibrio fisiologico e la mancanza di investimenti in stadi e centri sportivi d’eccellenza, ha provocato dal Duemila ad oggi il fallimento di oltre 100 club. E nella stagione che si avvia a conclusione, che pure ha visto le favole sportive di Capri e Frosinone promossi in Serie A, l’incubo di una nuova ondata di default è quanto mai concreto. Come testimonia la “mannaia” delle penalizzazioni per inadempienze economiche tornata ad abbattersi pesantemente sui club professionistici. Dai 32 punti di penalità inflitti nella stagione 2013/14 si è passati agli 81 decurtati in quest’annata ai team soprattutto di Lega Pro (con 65 punti persi per strada nei tre gironi). In Serie A il caso più clamoroso è quello del Parma, a cui sono stati tolti sette punti, dopo un vano balletto di passaggi societari che hanno portato alla dichiarazione di fallimento e alla retrocessione. In Serie B hanno ricevuto penalizzazioni per il ritardo dei pagamenti Irpef, Brescia e Varese (lo scorso anno era toccato a Bari e Siena poi falliti). Nella vecchia Serie C la Reggina ha subito la peggiore mazzata (16 punti tolti dalla classifica), ed è andata poco meglio al Novara, al Monza e Barletta. Di situazioni in bilico ce ne sono parecchie, dunque, e l’estate, in vista dell’iscrizione ai tornei 2015/16, rischia di rivelarsi un ennesimo periodo nero tra dissesti annunciati (anche per le più severe norme patrimoniali introdotte dalla Figc che comunque, come ha spiegato il Dg della Figc, Michele Uva, si faranno apprezzare soprattutto nei prossimi due-tre anni) e punizioni inflitte dalla giustizia sportiva in seguito alle indagini della Procura di Catanzaro ed a quelle che potrebbero riattivarsi a Cremona, dopo le confessioni di Hristiyan Ilievski, il capo degli “zingari”.
(Dal Sole 24 Ore del 24 maggio 2015)